Verità per Giulio Regeni

LE NAVI A PERDERE DI FRANCESCO FONTI (terza parte)

Non è solo il collaboratore di giustizia Francesco Fonti che mette in moto le indagini in Italia sul commercio clandestino di rifiuti tossici e sulle navi a perdere affondate nel Mediterraneo con il loro carico nocivo. Un esposto di Legambiente del marzo 1994 denuncia l’esistenza di discariche abusive con materiale radioattivo in Asprimonte: quelle che la cupola della ‘ndrangheta vede di malocchio a casa propria e apprezza invece all’estero o in fondo al mare.

di Paolo Bonacini, giornalista

Non è solo il collaboratore di giustizia Francesco Fonti che mette in moto le indagini in Italia sul commercio clandestino di rifiuti tossici e sulle navi a perdere affondate nel Mediterraneo con il loro carico nocivo. Un esposto di Legambiente del marzo 1994 denuncia l’esistenza di discariche abusive con materiale radioattivo in Aspromonte: quelle che la cupola della ‘ndrangheta vede di malocchio a casa propria e apprezza invece all’estero o in fondo al mare. Il dott. Francesco Neri della procura di Reggio Calabria apre un procedimento penale che nel giro di un solo anno porta a risultati definiti “inimmaginabili” tanto da esigere “rogatorie internazionali, collaborazione con altre procure italiane e scambi di informazioni con i servizi segreti”. Il primo caso clamoroso è quello della nave “Koraby” battente bandiera albanese, partita da Durazzo con destinazione Palermo. Nel porto siciliano viene respinta per gli alti livelli di radioattività dovuti ad un carico di scorie di rame d’altoforno, ma in un successivo controllo a Reggio Calabria la radioattività è scomparsa e la nave può rientrare in Albania. La procura considera “inquietante” l’episodio ipotizzando che l’equipaggio si sia disfatto del carico nocivo, scaricando in mare bidoni di plutonio durante il tragitto tra i due porti italiani. Intanto si muove anche la procura di Savona per 6mila fusti con materiale tossico scoperti nella ex cava Fazzari di Borghetto Santo Spirito, gestita da personaggi legati alle cosche calabresi. In Calabria viene creato un pool di investigatori esperti, che dialoga con la Procura di Matera per i traffici di scorie radioattive in arrivo dal centro Enea di Rotondella in Basilicata (vedi 2° puntata), e si avvale delle competenze del Corpo Forestale di Brescia. I suoi uomini sono da tempo sulle tracce di Giorgio Comerio, italiano con domicilio a Malta, chiamato ancora nel 2017 “Il re del traffico mondiale dei rifiuti nucleari”.  Tra gli altri del pool c’è il capitano di corvetta Natale De Grazia, dotato di grandi capacità investigative, che sequestra documenti a Comerio e riesce presto a mettere a fuoco un primo elenco di navi finite in modo sospetto in fondo al mare. La prima è la “Rigel”, che batte bandiera panamense e cola a picco al largo di Capo Spartivento in Calabria nel settembre 1987. Cosa trasportasse resta un mistero. Vanno giù in modo sospetto anche la motonave “Aso”  nel 1979 al largo di Locri, con 900 tonnellate di solfato ammoniaco; la “Mikigan” partita nel 1986 da Massa Carrara, ufficialmente con granulato di marmo, che affonda nel Tirreno sempre davanti alle coste della Calabria; la nave da carico “Four Star 1”che nel 1988 batte bandiera dello Sry Lanka e annega nei pressi di Capo Spartivento senza lanciare SOS, proprio come la Rigel; poi la “Anni” nel 1989 e la “Euroriver” nel 1991, entrambe maltesi ed entrambe finite sui fondali dell’Adriatico; e ancora la M/N “Jolly Rosso”, arenata a Capo Suvero di Vibo Valentia, attrezzata con “penetratori” e “telemine” per l’affondamento di rifiuti radioattivi nel sottosuolo marino. L’elenco è lungo ma citiamone solo un’altra: la “Latvia”, nave passeggeri dell’URSS, ritenuta appartenente al KGB, ormeggiata nell’ottobre 1995 alla diga foranea di La Spezia. Una carretta che non sta in piedi, ma alla procura di Reggio Calabria arriva l’informazione confidenziale che la Latvia è salpata per la Turchia con un carico di mercurio rosso radioattivo gestito da famiglie camorriste e logge massoniche, con l’obbiettivo di terminare il suo viaggio nello Jonio. “Le navi battono sempre bandiere straniere di comodo per rendere difficile la ricostruzione dei dati e dei sinistri”, conclude nella sua relazione il comandante De Grazia il 30 maggio 1995. Ma per almeno una di queste navi, la “Rigel” di proprietà della Mayfair Shipping Company Limited di Malta, la procura di La Spezia è riuscita a portare a processo nel novembre 1992 una decina di persone con l’accusa di associazione a delinquere, truffa ai danni delle assicurazioni e corruzione. Il comandante De Grazia vuole sapere cosa c’era nelle stive di quella nave e parte in auto per La Spezia il 12 dicembre 1995, con un mandato della procura di Reggio Calabria. Non ci arriva in Liguria: muore per arresto cardiocircolatorio all’altezza di Salerno, dopo aver pranzato in ristorante. Aveva solo 39 anni. Ancora oggi non è chiaro se l’arresto del cuore è la causa o la conseguenza, della morte. Dirà il procuratore Nicola Maria Paci nelle audizioni in Commissione Parlamentare, anni dopo: “Quando è giunta la notizia della morte di De Grazia io, il procuratore Neri ed altri non abbiamo avuto dubbi sul fatto che quella morte non fosse dovuta a un evento naturale”. Con De Grazia in quel viaggio e al ristorante c’è tra gli altri il maresciallo Niccolò Moschitta: “Capivamo che qualcosa attorno a noi non quadrava. L’ufficio del procuratore Neri era stato forzato, noi eravamo pedinati, controllati. Parlo di impressioni, certo, ma sono le impressioni di investigatori, non di falegnami o baristi”. Anche Fonti nel suo memoriale sostiene che De Grazia è stato ucciso e collega la sua morte a quella di Ilaria Alpi. Il fronte reggiano/somalo delle indagini si scontra a sua volta con quello che nel 2010, in audizione parlamentare, il maresciallo Moschitta chiama “il muro di gomma su cui inevitabilmente va a cozzare l’attività degli inquirenti e della polizia giudiziaria”. Il 18 e 19 febbraio 1993 la Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Roma sequestra a Reggio Emilia i libri sociali della Giza e in particolare quelli riguardanti i lavori svolti in Somalia dalla Gisoma. Il decreto di sequestro dice: “Vi è fondato motivo di ritenere che nei documenti siano occultate prove inerenti i reati di truffa continuata e in concorso con altri nelle relazioni con il Fondo Aiuti Internazionali e con le attività del Dipartimento Cooperazione del MAE”.

Anche in Somalia c’è una vittima eccellente: mons. Salvatore Colombo, originario della Brianza e vescovo francescano di Mogadiscio. Viene assassinato il 9 luglio 1989 con un colpo di pistola dietro la cattedrale della capitale. Non si scoprì mai né il colpevole né il motivo. Fino a quando, 28 anni dopo, il quotidiano cattolico Avvenire spiega che mons. Colombo progettava una conceria in accordo con i pastori della zona di Afgooye ed entrò in conflitto con il nuovo stabilimento aperto dalla Gisoma. “L’ex agente dei servizi segreti Aldo Anghessa fu perentorio” scrive Avvenire: “Mons. Colombo era un possibile concorrente ed era contro la Giza”. Il collaboratore del Vescovo che lo vide morire, padre Massimiliano Taroni, usa la stessa espressione del maresciallo Moschitta: “Muro di gomma. Fin dal mio rientro in Italia ho avuto la sensazione che di questa storia si doveva parlare il meno possibile”.

Se n’è parlato tanto poco che anche al governo non sapevano cosa fosse la flotta Shifco che solcava i mari italiani negli anni Novanta e quali pesanti interrogativi gravassero sulle sue reali attività. Altrimenti non si spiega perché nel dicembre 1998 non solo le navi della flotta continuano a viaggiare, ma vengono premiate dalla Commissione Europea che le autorizza, con la firma del commissario italiano per gli aiuti umanitari Emma Bonino, a esportare il pesce in tutti i Paesi della Comunità. Ne dà notizia, senza riuscire a nascondere una profonda amarezza, il settimanale Famiglia Cristiana nel marzo del 1999: “Hanno detto che è uno dei frutti avariati della Cooperazione italiana con i Paesi in via di sviluppo, passato alla storia per l’uso disinvolto quanto scandaloso del denaro pubblico. L’hanno più volte accusata di darsi a traffici illeciti di armi. Senza dubbio è stata l’ultima cosa su cui ha indagato Ilaria Alpi. La Shifco, unica flotta battente bandiera somala, ufficialmente dedita alla pesca e al commercio di prodotti ittici provenienti dal Corno d’Africa, si è sempre difesa dalle accuse che le venivano mosse definendole calunnie. Gli amministratori della società non sono fin qui mai stati condannati e adesso i padroni della Shifco hanno un motivo in più per girare a testa alta: possono vantare una lusinghiera ‘promozione’ dell’Unione europea. Ragioni di prudenza avrebbero forse consigliato di soprassedere”. La spiegazione del portavoce del commissario Bonino, “che si stupisce dello stupore altrui” prosegue il settimanale “è semplice: la concessione è stata firmata perché le navi della Shifco rispondevano ai requisiti tecnici, amministrativi e igienico-sanitari richiesti da Bruxelles”. Viene oggi da chiedersi: il fatto che prima il Sismi (maggio e giugno ’93 e ‘94, dicembre ‘94, aprile ‘95) e poi il Sisde (gennaio ‘95) segnalassero le dubbie attività dei pescherecci Shifco, in realtà utilizzati a loro dire per il traffico di armi, non era un elemento importante da prendere in considerazione almeno quanto le “condizioni igienico sanitarie” delle navi?

Anche l’enorme mole di informazioni fornita dal collaboratore Francesco Fonti non ha sortito grandi risultati. Su quelle due navi della Shifco a Livorno nel 1992, la “Mohamuud Harbi” e l “Osman Raghe”, sono state caricate a suo dire, oltre ai rifiuti tossici, 75 casse di kalashnikov, 25 casse di munizioni, 30 mitragliette Uzi, che arrivavano dalla fabbrica ucraina Ukrespets Export a bordo della nave “Jadran Express” con bandiera maltese, che fece scalo a Trieste… ecc. Si potrebbe continuare con mille altri dettagli: difficile pensare che sia tutto inventato.

Nei pressi del fiume Vella in Basilicata, dove furono trasportati i cento bidoni con materiale nocivo che non fu possibile imbarcare nel 1986, i contadini denunciavano morti per tumore e aborti negli allevamenti, mentre gli scavi hanno portato alla luce sette bidoni interrati. Troppo pochi evidentemente, perché l’indagine è stata archiviata e nessun indagato è andato a processo.

C’è però un’altra nave di cui è doveroso parlare prima di chiudere: la “21 Oktobar II”. È l’ammiraglia della flotta Shifco, almeno nel 1991, ma è anche la nave più misteriosa e inquietante che ha solcato i mari italiani negli ultimi trent’anni. Quando in rada a Livorno avviene la collisione tra il traghetto Moby Prince e la petroliera Agip Abruzzo, la sera del 10 aprile 1991, la Oktobar è ormeggiata nel porto già da diversi giorni. Nel rogo che seguì morirono 140 persone, la più grande tragedia della marina mercantile italiana. Il giorno dopo ero là per Telereggio, perché tra le vittime c’erano molti reggiani ed emiliani; non dimenticherò mai quella carcassa fumante, con ancora i cadaveri a bordo, dalla quale il fumo usciva mescolato all’intenso odore della carne bruciata. Restai lì ore, con i famigliari in attesa che piangevano sulla banchina. Quattro anni dopo il settimanale Avvenimenti esce con una copertina che sovrappone il volto di Ilaria Alpi e la foto del relitto fumante della Moby Prince, con il titolo: “E se fosse questo il segreto di Ilaria Alpi?” Si ipotizza che la giornalista avesse ricostruito i movimenti non segnalati di imbarcazioni, tra la rada e il pontile della 21 Oktobar II, intenta a scaricare armi nella notte del 10 aprile. Un improvviso e inaspettato ostacolo avrebbe provocato la collisione tra il traghetto e la petroliera. Speriamo non sia così: aggiungerebbe dolore al dolore. Il 29 novembre 1994 i parlamentari Elena Montecchi, Luciano Violante e Nilde Iotti chiedono una commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Milan Horvatin. Verrà istituita solo dieci anni più tardi e concluderà i lavori nel 2006, senza accordo tra maggioranza e minoranza. La presiede l’avv. di Forza Italia Carlo Taormina, che ritroviamo nel processo Aemilia a difendere i due imputati Giuseppe e Vincenzo Iaquinta. Taormina dichiara all’Unità, il 7 febbraio 2006: “Ilaria Alpi è morta a causa di una rapina. Era in vacanza e non stava facendo nessuna inchiesta; la commissione che presiedevo lo ha accertato”. Poteva risparmiarci questo commento.

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