Verità per Giulio Regeni

PALMO E GIUSEPPE, UNITI PER SEMPRE

Reggio Emilia non è mai stata nella sua storia millenaria sede di ducato o di contea, eppure possiamo dire con una battuta che ospita nel suo territorio provinciale almeno due regge: quella di Rivalta, voluta nel 1720 da Carlotta d’Aglae, figlia di Filippo d’Orleans, e quella di Montecchio,

di Paolo Bonacini, giornalista

Reggio Emilia non è mai stata nella sua storia millenaria sede di ducato o di contea, eppure possiamo dire con una battuta che ospita nel suo territorio provinciale almeno due regge: quella di Rivalta, voluta nel 1720 da Carlotta d’Aglae, figlia di Filippo d’Orleans, e quella di Montecchio, voluta a cavallo del terzo millennio dai fratelli Vertinelli. La prima doveva diventare una nuova Versailles e per gli imponenti lavori di costruzione il duca d’Este arrivò addirittura a battere moneta falsa. La seconda è stata costruita a 200 metri dal campo di calcio del paese con moneta buona ma frutto di attività illecite, almeno secondo la sentenza di primo grado del processo Aemilia, e per questo finita sotto confisca con i suoi immobili e le sue società. I reali proprietari del complesso di beni che ruota attorno alla reggia di Montecchio sono, secondo l’accusa, i fratelli Palmo e Giuseppe (detto Pino) Vertinelli. Nati entrambi in provincia di Crotone all’inizio degli anni Sessanta, sono quasi coetanei (Palmo è più vecchio di 15 mesi) e vivono entrambi da molto tempo nel comune della pedecollina reggiana. Almeno da quando, dice il collaboratore di giustizia Antonio Valerio, “nel settembre del 1983 io sono arrivato a Reggio Emilia che avevo 16 anni e ho fatto baldoria con loro la prima sera sparando colpi di pistola da un seminterrato. Tanto che la mattina dopo sono arrivati i carabinieri e ci hanno arrestato”. Secondo Valerio i Vertinelli già a quell’epoca facevano la falsa fatturazione e gestivano il caporalato dei lavoratori in edilizia, gettando le basi di una ricchezza valutabile per dimensioni con la misura di prevenzione patrimoniale che li ha colpiti il 29 ottobre 2015, quando si sono visti sequestrare a Reggio, Parma, Crotone e in Val d’Aosta beni per oltre 30 milioni di euro: 12 aziende, 71 immobili, 22 automobili e un numero consistente di conti correnti. Le vite dei due fratelli sono indissolubilmente legate e paradossalmente solo oggi non possono condividere le emozioni legate alle udienze d’appello di Aemilia. Palmo è infatti collegato in video conferenza dal carcere di Torino, mentre Giuseppe si trova in quello di Teramo. In precedenza anche il fuori e dentro dalla galera (per tre volte il Tribunale del Riesame ha accolto le loro istanze di scarcerazione) l’avevano vissuto assieme, ad esempio quando il 22 marzo del 2018, cinque minuti dopo essere usciti dal carcere della Pulce a Reggio Emilia per decadenza dei termini, venivano entrambi di nuovo arrestati nel piazzale della casa circondariale e riportati dentro con un nuovo capo d’accusa.

Questa vita comune e parallela di Giuseppe e Palmo è uno dei due macro temi sui quali accusa e difesa hanno battagliato martedì 30 giugno, quando l’udienza d’appello ha riguardato il più giovane dei fratelli, Pino, condannato in primo grado a 16 anni per appartenenza alla cosca mafiosa più 13 anni e dieci mesi per i singoli reati contestati nel rito ordinario. Gli avvocati difensori Alessio Fornaciari e Maria Battaglini anno detto in sostanza: le colpe dell’uno sono state automaticamente attribuite anche all’altro dalla sentenza di Reggio Emilia, ma la responsabilità penale è individuale e non famigliare. Replica per la Procura Generale il Sostituto Procuratore Antimafia Beatrice Ronchi, già PM in primo grado: “Non è vero, non abbiamo mai confuso l’uno con l’altro e per ogni capo di imputazione siamo entrati nei dettagli accertando la individuale responsabilità”.

C’è però un altro tema sul quale sono volate scintille tra accusa e difesa: un tema più generale che ritorna spesso e che potrà essere decisivo per i pronunciamenti della Corte d’Appello in riferimento a diversi imputati. Riguarda la risposta (diversa) che le parti danno ad una semplice domanda: “A che cosca di ‘ndrangheta appartiene Giuseppe Vertinelli?”

Secondo l’accusa a quella emiliana, la cui esistenza è certificata dalla sentenza di Bologna passata in giudicato e che si è storicamente separata e resa autonoma dalle originarie famiglie cutresi dei vari Dragone/Ciampà/Grande Aracri. Illuminante per la dott.ssa Ronchi il caso contestato dell’asta pubblica per l’affare immobiliare di Le Castella, ad Isola Capo Rizzuto. I Vertinelli allora vinsero la gara sfidando il boss Nicolino Grande Aracri e secondo Antonio Valerio a Palmo andò grassa di non aver pagato con la vita quella sfida. Per l’accusa questo è un chiaro segno di autonomia, non certo di sudditanza. Secondo le difese invece c’è una contraddizione logico temporale nel sostenere questa tesi, perché se i Vertinelli appartengo alla cosca dagli anni Ottanta/Novanta, la cosca poteva essere solo quella calabrese allora esistente e operante anche in Emilia Romagna. Se (e sottolineano se) i Vertinelli rispondevano ad un boss, questi era il Nicolino che di cognome fa Grande Aracri; non quello che si chiama Sarcone. E un eventuale processo si dovrebbe tenere là dove operava Grande Aracri: la Calabria.

Torna in questo ragionamento un tema caro a diversi difensori del primo grado di Reggio Emilia, magistralmente rappresentato dalla vicenda giudiziaria di Alfredo Amato e Gabriele Valerioti, accusati di avere incendiato nel 2011 l’auto di uomo di ‘ndrangheta, Michele Colacino, in un parcheggio nel parmense. I due si difesero sostenendo che si trovavano lì per caso e che il loro obbiettivo era un altro: rubare la cassaforte del vicino supermercato Sigma.

“Innocenti perché colpevoli” insomma, ma “colpevoli di qualcos’altro”.

Sul primo tema, la confusione di ruoli tra Giuseppe e Palmo Vertinelli, più che un errore dell’accusa pare una strategia degli imputati, almeno secondo gli atti del processo. Nel gennaio 2017 la dottoressa Federica Zaniboni, amministratore giudiziario delle società dei fratelli Vertinelli, a partire dalla Mille Fiori srl e dal collegato ristorante “Il cenacolo del pescatore”, usa il termine “Promiscuità” per rappresentare il tutt’uno che si intravvede dietro le società e le attività dell’intera famiglia Vertinelli: “Promiscuità di tipo fisico, materiale. Promiscuità nella cessione di rami di impresa tra una società e l’altra. Promiscuità nei pagamenti delle fatture. Promiscuità sulla successione negli appalti. Promiscuità in relazione al passaggio di lavoratori dipendenti da una società all’altra”. Promiscuità che significa in sostanza assoluta condivisione degli obbiettivi e delle metodologie idonee a realizzarli.

In questo disegno complessivo della famiglia Vertinelli sono coinvolte anche le mogli di Giuseppe, Giovanna Schettini, e di Palmo, Antonietta Bramante. Per la prima, il cui caso è stato trattato assieme a quello del marito. Beatrice Ronchi ha chiesto un aumento della pena (6 anni in primo grado) a 7 anni e 9 mesi, partendo dal presupposto di una non coerente valutazione dei termini di prescrizione dei reati contenuta nella sentenza di primo grado. Per lo stesso motivo il Sostituto Procuratore chiede che Giuseppe Vertinelli venga condannato complessivamente a 23 anni e 6 mesi riunificando i reati del primo grado.

Il processo d’appello di Aemilia corre veloce anche se il numero degli imputati costringerà la Corte a programmare udienze fino a novembre. Siamo giunti con la fine di giugno a circa una sessantina di casi trattati: la metà di quelli previsti. Con i fratelli Vertinelli (altri membri della famiglia verranno trattati successivamente) si entra nel vivo del processo con la riproposizione di quel tema di fondo che gli avvocati difensori di Giuseppe hanno sapientemente portato in aula alla Dozza: esiste una cosca autonoma emiliana? E se sì, chi ne fa davvero parte? È un tema che gli addetti ai lavori affrontano in appello con la doverosa e legittima dovizia di argomentazioni giuridiche, mentre sul piano che attiene più strettamente ai valori in gioco e alla dimensione criminale delle attività e dei fatti di cui si discute, ha già risolto a suo modo la questione il collaboratore di giustizia Antonio Valerio quando ha detto, in conclusione del processo di Reggio Emilia: “Non sono le nostre origini la discriminante, ma ciò che siamo: mafiosi e ‘ndranghetisti, maledettamente organizzati”.

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