Verità per Giulio Regeni

UN MAFIOSO IN SOGGIORNO

Al liceo scientifico di Bologna Albert Bruce Sabin (il medico polacco a cui dobbiamo il vaccino contro la poliomelite), lunedì 20 gennaio parliamo di mafia e di penetrazione della ‘ndrangheta in Emilia Romagna. Quando mostro le slide dei personaggi eccellenti inviati al “soggiorno obbligato” in Emilia Romagna, negli anni tra il 1958 e il 1995 (furono 3562 secondo il dossier “Mafie senza Confini” edito nel 2011 dalla regione Emilia Romagna e da Libera) una ragazza tra i cento studenti che partecipano all’incontro alza la mano e chiede stupita: “Ho visto bene? Totò Riina è venuto al confino a San Giovanni in Persiceto?” E’ il paese dove lei vive e la sua curiosità è normale. Il foglio di via obbligatorio per Riina, dopo il suo arresto a Corleone e la successiva scarcerazione, fu firmato dal tribunale di Palermo nel 1969 e prevedeva come destinazione proprio il ricco comune di 28mila abitanti che si trova 20 chilometri a nord di Bologna.

di Paolo Bonacini, giornalista

Al liceo scientifico di Bologna Albert Bruce Sabin (il medico polacco a cui dobbiamo il vaccino contro la poliomelite), lunedì 20 gennaio parliamo di mafia e di penetrazione della ‘ndrangheta in Emilia Romagna. Quando mostro le slide dei personaggi eccellenti inviati al “soggiorno obbligato” in Emilia Romagna, negli anni tra il 1958 e il 1995 (furono 3562 secondo il dossier “Mafie senza Confini” edito nel 2011 dalla regione Emilia Romagna e da Libera) una ragazza tra i cento studenti che partecipano all’incontro alza la mano e chiede stupita: “Ho visto bene? Totò Riina è venuto al confino a San Giovanni in Persiceto?” E’ il paese dove lei vive e la sua curiosità è normale. Il foglio di via obbligatorio per Riina, dopo il suo arresto a Corleone e la successiva scarcerazione, fu firmato dal tribunale di Palermo nel 1969 e prevedeva come destinazione proprio il ricco comune di 28mila abitanti che si trova 20 chilometri a nord di Bologna. Oggi non sarebbe più possibile, perché il soggiorno obbligato in comuni lontani da quello di residenza è stato prima modificato nel 1982, poi abolito con i referendum del 1995 e sostituito dall’obbligo di dimora nel luogo in cui si vive abitualmente. Riina non arrivò mai a San Giovanni in Persiceto perché prima di salire sul treno per l’Emilia chiese tre giorni di permesso e si rese latitante… per 24 anni. Ma altri boss dai nomi altisonanti furono costretti a stabilirsi in Emilia Romagna: Tano Badalamenti e Francesco Sandokan Schavone a Sassuolo (1974 e 1990), Procopio Di Maggio a Castel Guelfo (1958), Raffaele Diana a Bastiglia di Modena (1990), Giacomo Riina (zio di Totò) a Budrio di Bologna (1967), ecc.

A Quattro Castella di Reggio Emilia arrivò da Cutro nel 1982 Antonio Dragone, anche lui soprannominato Totò, uomo determinante per il radicamento della ‘ndrangheta a Reggio Emilia e in regione. Per capire di che pasta era fatto Totò Dragone, vale la pena rileggere una intervista rilasciata alla Gazzetta di Reggio il 18 settembre 1982, due settimane dopo la morte del generale Carlo Alberto Dalla Chiesta a Palermo. Il giornale sviluppò una breve inchiesta in due puntate, prima intervistando alcuni siciliani residenti a Reggio, poi affrontando il tema del soggiorno obbligato. A leggere quelle pagine siamo arrivati partendo da una vecchia nota dattiloscritta dei Carabinieri di Reggio che recita così: “Il 18 settembre 1982 il Dragone rilascia una intervista al quotidiano la Gazzetta di Reggio contenente dichiarazioni lesive del prestigio delle Forze dell’Ordine e per questo motivo veniva denunciato dai Carabinieri di Reggio Emilia”. La curiosità è d’obbligo: cosa disse Totò Dragone di così forte da meritarsi una denuncia?

L’intervista è anonima, nel senso che la Gazzetta non svela l’identità di Dragone, ma è un segreto di Pulcinella visto che il “confinato” risiede da pochi mesi a Montecavolo, è un “sospetto mafioso” proveniente da Cutro, di nome fa Antonio, ha con sé la moglie e due dei quattro figli. Ce n’è uno solo che mette assieme tutte queste specifiche. Il ragionamento di Dragone inizia così:  “Cosa ne penso del soggiorno obbligato? Per noi soggiornanti l’inserimento è difficilissimo, perché ti guardano sempre con sospetto e mai come un libero cittadino. Sono qui da quattro mesi e questo clima a mia moglie fa male. Voglio tornare al mio paese in Calabria, dove ho la mia attività nel campo dell’edilizia. Qua di sicuro non ci resto. Con la miseria che mi passa il Comune, tremila lire al giorno, non si riesce a vivere”.

Dunque lo pagano anche, Antonio Dragone, per starsene a fare nulla con la sua famiglia e i suoi amici tra le frazioni di Salvarano e di Montecavolo. Che abbia trovato qui degli “amici” cutresi lo si deduce da una informativa della Questura di Reggio dello stesso novembre 1982, di cui abbiamo già parlato e che dice: “Il Dragone Antonio è solito avere al seguito cinque o sei corregionali che si alternano con altri ogni 4/5 giorni, facendo notare chiaramente di essere addetti alla sua sorveglianza.  Sovente il Dragone si fa notare ad elargire forti somme di denaro con biglietti da 100.000 lire ai suoi fidati, estraendo dalle tasche grossi pacchetti di banconote di tale taglio. Tale comportamento denota, senza ombra di dubbio, che il Dragone si trova a suo perfetto agio in questa provincia dove potrebbe costituire una associazione di tipo mafioso”.

Che sia un mafioso tra mafiosi lo lasca intendere anche un’altra operazione dei Carabinieri sempre del 1982, così descritta nel rapporto: “In data 3 novembre la Compagnia Carabinieri di Reggio Emilia procedeva in Montecavolo di Quattro Castella all’arresto in flagranza per illegale detenzione di pistola e guide senza patente, di Pavesi Franco di anni 25, fornaio, da Mantova, pregiudicato. Emergeva che il Pavesi aveva in due occasioni tentato di uccidere il Dragone Antonio in Quattro Castella”. Di quell’arresto porta ancora memoria un caro amico Carabiniere da molto tempo in pensione.

Torniamo all’intervista perché Dragone non è l’unico uomo inviato al confino a Reggio Emilia e il boss 39enne perora la causa degli altri che hanno meno forza contrattuale di lui: “Conosco altri, qua nella zona, che vivono in condizioni disumane, che io non accetterei mai e poi mai. Quello di Reggiolo ha otto figli e non ha un lavoro e neppure una casa. Quello di Montecchio dorme in una specie di sgabuzzino. Quelli non sono mafiosi, sono solo dei poveracci senza cervello, che non sanno neanche difendersi da soli”. Dragone invece sa difendersi da solo, e lo spiega bene nelle righe successive: “Io ho trovato casa grazie all’interessamento del sindaco, ma di sicuro nelle condizioni in cui è quello di Montecchio mi sarei ribellato. A costo di andare dal sindaco e stabilirmi a casa sua, volente o nolente. Se non mi avessero dato la casa sarei stato costretto a farmela dare in qualche altro modo, anche a costo di commettere un reato. Anni fa mi avevano mandato in soggiorno da un’altra parte e anche lì se ho voluto la casa mi è toccato minacciare il sindaco. Io sono vittima di una persecuzione.” Povero Dragone, che per avere una casa decente è costretto a minacciare i sindaci… E fortuna che lui lo sa fare!

In quel settembre 1982 i sospetti mafiosi confinati in provincia di Reggio Emilia sono otto, dislocati in altrettanti comuni: Quattro Castella, Boretto, Cavriago, Correggio, Montecchio, Novellara, Poviglio e Reggiolo. Altri due soggetti pericolosi dovranno arrivare a Gualtieri quando usciranno dal carcere mentre cinque confinati destinati a Reggio Emilia hanno preferito darsi alla latitanza… come Riina.

L’ultima parte delle dichiarazioni di Dragone alla Gazzetta pare un perfetto trattato di cultura mafiosa, ed è presumibilmente quella che ha spinto i Carabinieri alla denuncia. Dice il boss: “Secondo me il soggiorno obbligato serve solo a rovinare le altre regioni perché criminali, se non lo si era prima, si è costretti a diventarlo. I mafiosi? Sono tutti quelli che abusano dei loro poteri. Ma cosa crede, che i marescialli e i loro superiori non facciamo di questi abusi? Anche Dalla Chiesa l’hanno ammazzato perché abusava del suo potere.”

Il prefetto di Palermo era stato ucciso alle 21,15 del 3 settembre, due settimane prima, e con lui erano morti la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo. Omicidi di mafia, per i quali sono stati condannati all’ergastolo i vertici di Cosa Nostra.

Nelle parole di Dragone c’è il disprezzo per le istituzioni e per chi ha pagato con la morte violenta l’impegno per la legalità. C’è il disprezzo per la vita degli altri, unita al vittimismo tipico di chi ritiene gli sia tutto dovuto; di chi sa essere forte solo con un portafoglio pieno, un’arma in mano, una scorta di scagnozzi attorno.

Antonio Dragone c’è poi tornato nel suo paese in Calabria, e là c’è morto. Ucciso il 10 maggio 2004 mentre era a bordo della sua Lancia Kappa blu scuro blindata, da un commando armato di bazooka, kalashnikov e pistole.

Nel giugno dello scorso anno per quell’omicidio sono stati definitivamente condannati all’ergastolo dalla Cassazione, come mandanti, Nicolino Grande Aracri e il fratello Ernesto. Angelo Greco è stato condannato a 30 anni come esecutore.

Loro sì che hanno abusato del loro potere… facendo piazza pulita dei rivali.

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