Verità per Giulio Regeni

VIAGGIO DI NATALE

Visto che le norme anti Covid ancora lo consentono, approfittiamo della possibilità di viaggiare lungo la via Emilia da Piacenza a Rimini. Per dare un occhio allo stato di salute delle nostre province nella lotta quotidiana contro il virus… della criminalità organizzata e/o di stampo mafioso

di Paolo Bonacini, giornalista

Visto che le norme anti Covid ancora lo consentono, approfittiamo della possibilità di viaggiare lungo la via Emilia da Piacenza a Rimini. Per dare un occhio allo stato di salute delle nostre province nella lotta quotidiana contro il virus… della criminalità organizzata e/o di stampo mafioso. Partiamo da

BOLOGNA, dove la Corte d’Appello del processo Aemilia ci porterà entro Natale la sentenza per i 120 imputati che hanno presentato ricorso. Il presidente Alberto Pederiali ha annunciato la data dell’ultima udienza, giovedì 17 dicembre, che si concluderà con il ritiro dei tre giudici (Maurizio Passarini e Giuditta Silvestrini gli altri) in Camera di Consiglio. La penultima seduta, il 9 dicembre, accusa e difese l’hanno dedicata alle repliche e alle controrepliche programmate per una decina di imputati e sono volate le normali scintille tra le parti, in particolare sul deposito di nuovi documenti e memeoriali. Legittimi e importanti secondo i difensori, fuori tempo massimo a parere della Procura Generale. L’aula in queste ultime battute è tornata ad essere strapiena di avvocati e imputati a piede libero, come non accadeva dal 13 febbraio scorso, quando iniziò l’Appello al piano terra del carcere della Dozza. In ballo per gli imputati ci sono i 1223 anni di carcere delle sentenze di primo grado, pronunciate dalla Corte di Reggio Emilia il 31 ottobre 2018. Le difese hanno chiesto per tutti l’assoluzione, la Procura Generale ne ha ribadito la colpevolezza, con l’unica significativa eccezione dell’imprenditore modenese Gino Gibertini, condannato in primo grado a 8 anni di carcere per estorsione aggravata dal metodo mafioso: anche l’accusa chiede oggi l’assoluzione. Muoviamoci verso ovest e portiamoci a

MODENA, il cui Tribunale il 15 dicembre ospita l’avvio di un altro importantissimo processo, collegato ad Aemilia. È quello che vedrà alla sbarra il senatore Carlo Giovanardi, che dovrà rispondere in concorso con altri dell’accusa di minacce a corpo politico, amministrativo e giudiziario dello Stato e di rivelazione di segreti d’ufficio, con le aggravanti dell’abuso di potere e del metodo mafioso. I fatti risalgono agli anni tra il 2013 e il 2015, quando l’allora esponente del Nuovo Centro Destra cercò, secondo la Direzione Distrettuale Antimafia, di aiutare le imprese edili della famiglia Bianchini (a processo sono Augusto, il figlio Alessandro e la moglie Bruna Braga) ad ottenere la reiscrizione alla White List della prefettura modenese. La Bianchini srl e la Ios srl erano state escluse perché ritenute in affari con la ‘ndrangheta emiliana nel post terremoto 2012. Giovanardi corse in soccorso dei Bianchini, ricorda l’ordinanza che dispone il giudizio, utilizzando pressioni e minacce nei confronti di importanti rappresentanti della Prefettura e del Gruppo Interforze che vigilava sulle penetrazioni malavitose nelle opere di ricostruzione. Lo fece con la complicità di funzionari pubblici, come il Capo di Gabinetto della prefettura modenese Mario Ventura, il funzionari dell’agenzia delle Dogane Giuseppe De Stavola, il dipendente della Prefettura Daniele Lambertucci, l’avvocato Giancarla Moscattini. Lo fece soprattutto abusando del suo ruolo parlamentare e della sua visibilità politica, utilizzati per spaventare e condizionare, anche attraverso minacce, figure di rilievo delle Forze dell’Ordine, come il comandante provinciale dei Carabinieri. Il processo ci aiuterà anche a capire il ruolo e i mandanti di alcuni inquietanti personaggi della ditta Safi srl di Melegnano (MI), che si infilavano in Prefettura e alle riunioni dichiarando di agire per conto di “strutture riservate dello Stato”.  Pochi chilometri più a ovest ci fermiamo a

REGGIO EMILIA, dove c’è solo l’imbarazzo della scelta tra i procedimenti giudiziari da seguire in queste festività natalizie. Arrivano le sentenze di primo grado della prima tranche di Billions, l’indagine della Procura che raggruppa oggi oltre 200 indagati (di cui 130 a Reggio) uniti in una sofisticata organizzazione criminale dedita principalmente alla falsa fatturazione e alle truffe societarie. Inizia il rito ordinario in Tribunale del processo di mafia Grimilde, dove ritroveremo Francesco Grande Aracri, fratello di Nicolino e vecchia conoscenza brescellese della famigalia di ‘ndrangheta, il cui figlio Salvatore ha preso 20 anni nel rito abbreviato da poco concluso a Bologna. È finalmente partito il processo Octopus, con molti reggiani doc accusati della sempre redditizia falsa fatturazione, al termine di una inchiesta rimasta per troppi anni ad ingiallire in qualche cassetto. Speculare al nuovo dinamismo della Procura reggiana, dopo l’arrivo del Procuratore Marco Mescolini nel 2018, è quello della vicina Procura di

PARMA, dove sempre dal 2018 a coordinare le attività di contrasto alla criminalità organizzata è il Procuratore Alfonso D’Avino. Nella provincia ducale l’ingresso sistematico di organizzazioni criminali nell’economia locale è preoccupante almeno quanto a Reggio Emilia e mostra le nuove frontiere dell’aggressione al comparto della meccanica avanzata e ai diritti del lavoro. Dopo l’indagine di mafia Stige, il cui processo a Catanzaro coinvolge anche imprese parmensi, il principale condannato emiliano, l’imprenditore Franco Gigliotti, aggiunge ai 10 anni di condanna di quel processo i 6 anni e 4 mesi nella sentenza del primo grado di Work in Progress. La relativa inchiesta ci racconta, come Billions a Reggio Emilia, che la falsa fatturazione e la conquista illecita della leadership nei mercati, non piacciono solo ai mafiosi e che i sistemi illeciti di arricchimento trovano sempre nuovi adepti. Con l’aggravante, in particolare a Parma, di un pesante attacco ai diritti dei lavoratori e della rappresentanza sindacale, come ci raccontano l’inchiesta Paga Globale, precedente a Work in Progress, e quella denominata Daunia, fresca di queste settimane. Con volumi complessivi d’affari illeciti sempre più preoccupanti. Un salto a

PIACENZA è doveroso, perché nell’ultima provincia emiliana, che respira spesso più l’aria di Milano che quella di Bologna, ancora la comunità locale si lecca le ferite per il tradimento di importanti figure delle istituzioni pubbliche che hanno preferito gli interessi privati e illeciti all’interesse pubblico. Almeno così dice la sentenza di Grimilde che nel rito abbreviato condanna l’ex presidente del consiglio comunale di Piacenza, Giuseppe Caruso, a 20 anni di carcere, per gli affari comuni (di mafia) consumati assieme ai Grande Aracri di Brescello. I quali intanto non disdegnavano di stringere accordi economico/elettorali anche con un altro esponente del centro destra, il presidente del consiglio regionale della Calabria, Domenico Tallini, arrestato nell’operazione Farmabusiness. Ma più che il politico condannato, a destare stupore a Piacenza sono i militari arrestati. Quelli (11 in tutto) dell’inchiesta Odysseus, con accuse che vanno dal traffico e spaccio di stupefacenti alla ricettazione, dall’estorsione all’arresto illegale, dalla tortura alla violenza aggravata, dal falso ideologico alla truffa ai danni dello Stato. Reati commessi quest’anno, nel 2020, da un gruppo criminale il cui cuore si trovava nella caserma dei Carabinieri di Piacenza Levante, dove sette militari su otto in servizio sono finiti agli arresti o sotto inchiesta.

Che fosse una “associazione a delinquere” lo dice uno di loro, Giuseppe Montella, appuntato di 37 anni che parla in auto senza sapere di essere intercettato: “Minchia, ti devo raccontare… ho fatto una associazione a delinquere, ragazzi! E a noi siamo irraggiungibili. A noi non arriveranno mai”. Per fortuna, anzi, per capacità, ci sono invece arrivati e li hanno beccati, grazie al meticoloso lavoro coordinato dalla Procura piacentina della dott.ssa Grazia Pradella. A questo punto possiamo invertire il senso di marcia e velocemente in autostrada andiamo a dare uno sguardo alle province ad est di Bologna, in quella Romagna che fa rima con caporalato.

FORLI’/CESENA e RAVENNA hanno il non invidiabile record del primo processo in Emilia Romagna, al termine dell’inchiesta di questa estate sui 45 pakistani e afgani che lavoravano per alcune aziende agricole distribuite tra le province di Forlì (nel capoluogo e a Castrocaro), Rimini (San Clemente e San Giovanni in Marignano) e Ravenna (Bagnara di Romagna). A gestire la loro vita erano quattro “caporali” ora arrestati, anche loro pakistani, che avevano la base operativa in un casolare agricolo nelle campagne del comune di Bagnara, non lontano dal fiume Santerno che separa le province di Ravenna e Bologna.

La legge in materia approvata nel 2016 condanna non solo chi recluta i lavoratori per sfruttarli, ma anche chi li “utilizza, assume o impiega” sottoponendoli a condizioni di sfruttamento “ed approfittando del loro stato di bisogno”. Perché è troppo comoda “comprare” disperati a poco prezzo facendo finta di non sapere da dove vengono o quanto li paga o come li tratta chi li scarica ogni mattina all’alba nei campi. Questi 45 erano costretti a turni settimanali dalle 60 alle 80 ore, e la paga era mediamente di 250 euro al mese, dai quali andavano però sottratti circa 200 euro che ogni lavoratore doveva pagare ai caporali per il vitto e l’alloggio. Basta e avanza per parlare di barbarie. CGIL CISL e UIL sono state ammesse come parte civile a questo processo e i loro avvocati cercheranno di concentrare l’attenzione della Corte anche sulle lacune della legge, che reprime chi commette il crimine ma non prevede alcuna tutela per chi lo subisce: gli stessi lavoratori. I quali finiscono spesso per scappare, per rimanere schiavi dei caporali e votati a nuovi sfruttamenti, come la storia di Bagnara ci insegna.

RIMINI ha ospitato alcuni giorni fa il cuore di una riflessione comune messa in campo da Libera, organizzazioni sindacali, Avviso Pubblico, che lanciano il “Manifesto per la legalità in Emilia Romagna” concentrato su tre grandi filoni di lavoro: caporalato e agromafie nelle campagne, logistica e attività economiche nei porti (a partire da quello di Ravenna), turismo e attività indotte in tutta la riviera adriatica. Il presupposto è che l’emergenza sanitaria in corso sta accelerando la penetrazione della criminalità organizzata in Romagna, con una diversa  ma egualmente devastante caratterizzazione rispetto all’Emilia. Una semplice frase pronunciata nell’incontro riassume la sostanza delle dinamiche a cui è necessario opporsi: “Il virus ha ampliato la forbice tra ricchi e poveri, e qui sguazza la mafia”.

Ci sguazza anche a San Marino, fuori dalla giurisdizione italiana, dove tra il 2006 e il 2014, emerge dal convegno, sono stati esportati e ripuliti 22 miliardi di euro. Non male come record.

La benzina sta finendo e non ci resta che entrare nell’ultima provincia emiliano romagnola, quella di

FERRARA, dove non ci risultano a memoria inchieste o processi in corso che riguardino grandi organizzazioni criminali. Poi, per smorzare eventuali entusiasmi, torna alla memoria la classifica del Sole 24 Ore che all’inizio del recente mese di novembre attribuiva alla città estense il settimo posto in Italia tra le province con il maggior numero di denunce per crimini di stampo mafioso. Con un incremento del 200% sull’anno precedente.

E allora non fermiamoci in città e tiriamo dritto verso il mare, verso i Lidi ferraresi, sperando che almeno i freschi venti invernali dell’Adriatico ci aiutino a respirare un po’ d’aria pure, sgombra dal Covid e da ogni altro virus criminale.

Buon Natale a tutti.

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