Verità per Giulio Regeni

LE TRE FACCE DELLA MEDAGLIA

Collaboratori di giustizia, pentiti o dissociati? Spesso confondiamo i termini, o li usiamo alternativamente per comodità sottintendendo la medesima attribuzione di significato alle diverse espressioni. In realtà sia il fronte più strettamente giudiziario che l’analisi storica delle vicende di mafia (e ancor più di quelle del terrorismo negli anni Settanta e Ottanta) ci invitano alla cautela e alla necessaria distinzione dei significati e dei valori in gioco.

di Paolo Bonacini, giornalista

Collaboratori di giustizia, pentiti o dissociati? Spesso confondiamo i termini, o li usiamo alternativamente per comodità sottintendendo la medesima attribuzione di significato alle diverse espressioni. In realtà sia il fronte più strettamente giudiziario che l’analisi storica delle vicende di mafia (e ancor più di quelle del terrorismo negli anni Settanta e Ottanta) ci invitano alla cautela e alla necessaria distinzione dei significati e dei valori in gioco.

Il tema è di stretta attualità dopo la lettera scritta il 18 gennaio scorso da Gianluigi Sarcone (poi condannato a 14 anni e 6 mesi di carcere) alla Corte d’Appello di Bologna che lo doveva giudicare nell’ambito del processo Aemilia. C’è scritto ad un certo punto: “Nel presente incomincio con il prendere le distanze dall’associazione (mafiosa, si intende). Me ne dissocio”.

Sarcone dunque si “dissocia”. Ammette di avere fatto parte della ‘ndrangheta emiliana dal 2004 al 2015 e rende questa confessione perché, scrive: “Il tempo passato in stato di detenzione e la lontananza dagli affetti più cari (moglie e due figli) mi ha fatto riflettere profondamente. Non trovo e non so dare più un significato alla mia esistenza”.

Le ragioni sono umanamente comprensibili, perché stare in galera non è il massimo della vita, ma nulla hanno a che vedere con il pentimento e nulla implicano in termini di collaborazione con la giustizia. Nulla, soprattutto, sembrano avere a che fare con il concetto storico di “dissociazione”, introdotto negli anni Ottanta dalle norme di contrasto alla lotta armata delle varie organizzazioni comuniste combattenti.

Concetto che spiega a dovere, in un articolo di un anno fa sulla rivista “Ristretti Orizzonti”, il procuratore aggiunto di Catania Francesco Puleio, aggregato anche in inchieste di mafia contro Cosa Nostra: “Il fenomeno della dissociazione nacque in una fase in cui l’emergenza terrorista era stata sostanzialmente sconfitta sul piano militare, proprio per la collaborazione con la giustizia. La dissociazione si propose come una svolta politica, in cui il dissociato dichiarava la propria abiura della violenza politica e del terrorismo in pubbliche sedi processuali. Il dissociato operava un sorta di revisione autocritica che concorreva alla delegittimazione dei presupposti ideologici, dell’impianto concettuale e motivazionale, ad una sorta di sradicamento dei meccanismo di riproduzione di tali fenomeni. Fattori questi non riproponibili nell’universo della criminalità organizzata”.

Men che meno nell’universo della ‘ndrangheta emiliana, dove l’unico presupposto ideologico è riassumibile della frase del collaboratore di giustizia (siciliano di Cosa Nostra) Antonino Giuffré: “La mafia si fa per arricchirsi, non per cambiare il mondo”. Conclude perentorio il procuratore Puleio: “È la natura stessa del patto connesso alla realizzazione del reato di associazione mafiosa, che riguarda racket, omicidi, droga, a rendere inconcepibile il meccanismo della dissociazione in materia. Come ci si può dissociare dalla corruzione o dal riciclaggio?”

Se, in sostanza, è possibile dissociarsi da un progetto eversivo che abbia comunque una matrice ideologiche (la lotta armata delle BR e di Prima Linea, ad esempio), non si può fare altrettanto là dove questa matrice è totalmente assente.

Gianluigi Sarcone ci va dunque stretto negli abiti del dissociato ma certamente non entra (perlomeno non ancora) in quelli del collaboratore di giustizia. La legge n.15 del 6 febbraio 1980, poi nota come legge Cossiga, introduce il termine “dissociato” nell’ordinamento giuridico italiano, ma non concede sconti di pena a chi semplicemente “prende le distanze” dai vecchi compagni e dal comune progetto eversivo. Lo fa solamente nei confronti di chi “si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, ovvero aiuta concretamente nella raccolta di prove decisive per l’individuazione dei concorrenti”. La stessa legge definisce “non punibile” il colpevole di un atto di terrorismo che “volontariamente impedisce l’evento e fornisce elementi di prova determinanti per la esatta ricostruzione del fatto e per la individuazione degli eventuali concorrenti”.

I benefici di legge riguardano dunque coloro che poi verranno chiamati collaboratori di giustizia (dalla legge n.82 del 15 marzo 1991), ed è evidente già nel 1980 che i collaboratori fanno male alle organizzazioni criminali; molto male. Compiono un passo senza ritorno, perché non solo ammettono di avere compiuto dei reati, ma aiutano concretamente ad identificare altri responsabili e a sviscerare altre azioni delittuose. Sono i collaboratori che hanno contribuito a smantellare le Brigate Rosse, non chi si è semplicemente dissociato, perché le BR non avevano quel consenso di massa che sognavano e che avrebbe reso pericolosa una campagna ideologica dall’interno, contro il progetto della lotta armata. Ai collaboratori  le BR non concedevano alcuna attenuante per la scelta compiuta e a loro andavano le minacce più pesanti degli irriducibili.

Raffaele Fiore, brigatista in carcere a Torino, scrive una lettera alla rivista Controinformazione pubblicata il 18 giugno 1980 in cui attacca l’ex “compagno di lotta” Patrizio Peci, che in soli quattro mesi di collaborazione, dopo l’arresto in febbraio, ha già consentito di aggredire la base brigatista di via Fracchia a Genova e porterà a smantellare la colonna torinese. “È chiaro a chiunque” scrive Fiore “che il mercenario Peci collabora con lo Stato non perché è entrato politicamente in crisi come si affannano a voler far credere i mass media. Non di un pentimento, non di una critica all’esperienza della lotta armata si tratta, ma più semplicemente di un volgare commercio, con il quale questo povero idiota si illude di conquistare la libertà. E’ chiaro che questo pidocchio, dal momento in cui ha scelto di diventare un carabiniere, deve avere paura della sua stessa ombra, avere terrore di entrare in contatto con qualsiasi proletario, sia in carcere che fuori, perché ognuno può essere quello che lo scanna. Ancor più chiaro deve esserlo per chi ha a che fare con questo infame traditore: siano essi padre, madre, fratelli e sorelle. Chiunque gli manifesta comprensione, si merita lo stesso odio, lo stesso disprezzo, la stessa condanna, e la stessa fine che siamo decisi a riservare a chi passa dalla parte del nemico di classe. Questo traditore può essere certo che i suoi ponti d’oro li faremo grondare col sangue di tutti gli sbirri e gli infami come lui”.

Il messaggio è chiaro: tolleranza zero verso chi collabora. Lo stesso messaggio, questo sì uguale, che trasmettono le organizzazioni mafiose ai loro partecipi. Gianluigi Sarcone decide di ammettere l’appartenenza alla ‘ndrangheta perché sente la mancanza della propria famiglia, mentre chi collabora sa che mette a rischio le vite anche della propria famiglia. Sono due piani completamente differenti.

Resta il terzo ambito: il pentimento. Ma indagare il sentimento del pentimento è cosa assai difficile. È più uno stato dell’anima che un dato oggettivo e certificarne l’autenticità sarebbe arduo. Cinicamente, dal punto di vista giudiziario, anche di scarsa utilità. Si può credere al pentimento di chi non trae vantaggi dalla propria scelta in termini di riduzione di pena, come Angelo Salvatore Cortese. Si può credere al pentimento di chi lo declama oltre ogni propria ragionevole necessità, come Antonio Valerio quando consegna il suo memoriale nel 2018 titolato “Lettera di scuse e di reale e concreto pentimento”, nel quale il passaggio fondamentale è una semplice frase che dice: “La ‘ndrangheta fa schifo”. Si può credere, ancora , al pentimento di Salvatore Muto quando parlando con sé stesso più che con la Corte, nell’aula bunker del Tribunale di Reggio Emilia, lascia presagire una resa dei conti con la propria coscienza dall’esito né semplice né scontato. Col senno di poi, dopo la tenuta in Cassazione e in Appello delle sentenze di Reggio Emilia e Bologna, si può credere ad una corrispondenza diretta tra sincerità della confessione e utilità della collaborazione, ma è una valutazione priva di significato giuridico.

Anche su questo fronte sarebbe azzardato considerare un pentimento la lettera di Gianluigi Sarcone. Che chiede scusa alla Corte, alle Istituzioni, al Procuratore Generale, ma nulla dice sui tanti anni della sua ammessa partecipazione alle attività di ‘ndrangheta e sulle tante persone offese e danneggiate da quelle attività.

Con questo quadro di riferimento, con la lettera spedita pochi giorni prima dell’ultima udienza in Appello che lo riguardava, era difficile ipotizzare un effetto della sua dissociazione, in termini di attenuanti, sulla attesa sentenza del 25 febbraio 2020.

E infatti così non è stato.

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