Verità per Giulio Regeni

LO STATO DELL’ARTE CHE ARTE NON È

di Paolo Bonacini, giornalista

L’amara verità sta scritta nell’ultima relazione semestrale della DIA, la Direzione Investigativa Antimafia che manda due volte l’anno le sue riflessioni e i suoi dati, frutto di una capacità di analisi del territorio nazionale che non ha eguali in Europa, al Parlamento Italiano.

Alla fine del 2021 appare evidente, sulla base di inchieste e processi, che: “Le organizzazioni mafiose non appaiono più semplicemente orientate al saccheggio parassitario della rete produttiva ma si fanno impresa, sfruttando rapporti di collaborazione con professionisti collusi la cui opera viene finalizzata a massimizzare la capacità di reinvestimento dei proventi illeciti con transazioni economiche a volte concluse anche oltre confine”.

Nel farsi impresa la mafia, che in Emilia Romagna è prima di tutto ‘ndrangheta, incontra e abbraccia altre organizzazioni criminali comuni; ma incontra e abbraccia anche, se non soprattutto, gli appetiti di imprenditori e sistemi economici complessi che seguono l’unica legge del più alto profitto possibile a scapito di regole, leggi, libero mercato, diritti dei lavoratori, principi costituzionali,  doveri sociali e di solidarietà attraverso le imposte pubbliche.

In Emilia Romagna, scrive la DIA, “La situazione generale della criminalità organizzata evidenzia come la condotta delle cosche parrebbe indirizzata sempre più verso l’infiltrazione dell’economia, abbandonando quasi del tutto l’atteggiamento basato sul tradizionale controllo del territorio e sulle manifestazioni di violenza”.

La prima conseguenza di questa scelta strategica è che “La penetrazione nel tessuto economico e imprenditoriale tenderebbe a connettere la ‘ndrangheta alla così detta zona grigia in cui orbitano professionisti e imprenditori. Questi ultimi a loro volta rappresentano un contatto privilegiato con quegli ambienti funzionali ad ottenere anche sostegno finanziario e a realizzare nuove e strumentali iniziative economiche”.

Un autorevole Pubblico Ministero, che ha indagato la ‘ndrangheta in Emilia Romagna, sostiene che la “zona grigia” non esiste. O si sta con le regole dello Stato, o si sta con le regole della mafia. O si è bianchi e puliti, o si è neri e sporchi.

A parte questo, ciò che preoccupa di più deve essere quell’insieme di “ambienti funzionali ad ottenere anche sostegno finanziario” di cui parla la relazione. Significa banche, agenzie e fondi pubblici; significa PNRR e credito europeo. La storia dei pagamenti effettuati dall’agenzia europea AGEA alla Riso Roncaia SpA di Castelberforte (MN), per la quale sono state emesse condanne pesanti nel processo Grimilde ancora aperto a Reggio Emilia, lo dimostra. Una commessa da 6,8 milioni di euro per la consegna di riso e cereali a popolazioni bisognose del terzo mondo, che la società gravata di debiti riuscì a salvare, schivando la segnalazione alla centrale rischi della Banca d’Italia, grazie all’aiuto di Salvatore Grande Aracri da Brescello e di Giuseppe Caruso da Piacenza, entrambi condannati nel rito abbreviato per 416 bis. I soldi li presero, ma il riso non lo consegnarono. Per non perdere il finanziamento milionario i vertici della cosca emiliana e gli amministratori della Spa, di comune accordo, si inventarono la rottura di un macchinario certificata da falsi documenti.

Ripartiamo da qui allora, da questa scelta di campo culturale, prima che giudiziaria, per analizzare come si è mossa in Emilia Romagna la ‘ndrangheta che resta (come sostiene la DIA) “la più grande holding” transazionale del crimine al mondo, per volume di affari e capacità di penetrazione nei continenti.

Una holding che grazie ad Aemilia deve però fare i conti con un fenomeno nuovo e positivo: quello del pentitismo. Dice la DIA: “Il fenomeno mafioso calabrese imperniato su una forte connotazione familiare non può oggi essere analizzato senza tener conto dell’inedito impatto determinato da un numero sempre crescente di ‘ndranghetisti che decidono di collaborare con la giustizia”. In questa regione significa tener conto di ciò che hanno raccontato, aiutando gli investigatori ad aprire nuovi filoni di indagine, Angelo Salvatore Cortese, Antonio Valerio, Salvatore Muto, Giuseppe Giglio, per citare i più significativi. Collaboratori sotto protezione, perché importanti per il contrasto alla criminalità mafiosa, ma ciò non ha impedito che un anno fa sia stato ucciso il marito della figlia di uno di questi, e che un altro collaboratore sia stato oggetto recentemente in aula, durante il processo Grimilde, di offese e intimidazioni da parte di un avvocato difensore.

La “guerra dall’interno” non ha comunque impedito alle cosche di perfezionare la propria vocazione economica, attratta prima di tutto dal ricco mercato del Nord negli appalti pubblici e privati: “Le imprese mafiose inquinano la gara sin dalla stesura del bando e delle procedure di evidenza pubblica attraverso varie forma di connivenza con funzionari pubblici. Laddove non sia possibile un inserimento nella fase prodromica, i gruppi criminali non di rado tentano di esercitare forme di pressione estorsiva nei confronti delle aziende affidatarie dell’appalto o del subappalto per ottenerne illeciti vantaggi”.

I protocolli di legalità firmati in Emilia Romagna sono uno strumento fondamentale per smorzare questa capacità criminale di tessere relazioni, ma bisogna vegliare anche sulla loro applicazione e tenere sempre a mente che: “I sodalizi mafiosi continuano a evidenziare grande capacità di adattamento anche dopo le misure di contenimento conseguenti alla pandemia, preferendo la strategia di evitare le manifestazioni di violenza in luogo ad una silente infiltrazione economica, anche grazie a forme di connivenza con professionisti estranei a contesti criminali. Si tratta di relazioni con imprenditori, professionisti e funzionari infedeli che con il loro attivo supporto possono agevolare l’ascesa delle consorteria nei mercati finanziari ed economici. La crescita del fenomeno mafioso in questa direzione scaturisce dalla capacità dei gruppi criminali di accrescere nel tempo il loro bagaglio relazionale intuendo i cambiamenti sociali ed economici per trasformarli in opportunità di guadagno. Secondo uno studio della Banca d’Italia (che CGIL ha diffuso in settembre con una accurata sintesi di Franco Zavatti), i volumi di affari legati alle attività illegali  sono ingenti e si può stimare che rappresentino oltre il 2% del PIL italiano. A tali valori occorre poi aggiungere i proventi delle mafie ottenuti attraverso l’infiltrazione nell’economia legale. È nota inoltre la tendenza delle consorterie mafiose a rivolgere le proprie mire di espansione imprenditoriale verso quelle Regioni con un PIL pro capite più elevato e una maggiore dipendenza dell’economia locale dalla spesa pubblica. Quindi verso territori con maggiori opportunità di investimento, di profitto e di estrazione di rendite”. L’intero nord Italia, Emilia Romagna compresa, è dunque l’area più ghiotta per queste attività.

Scardinare l’idea che qualunque “fornitore di servizi”, mafie comprese, sia il benvenuto per generare arricchimento, è fondamentale per la DIA. Anche perché è bene ricordare a tutti che “l’immissione di liquidità attuata dalle organizzazioni mafiose, l’accaparramento degli appalti a scapito di imprese rispettose delle normative e la distorsione degli ordinari meccanismi che regolano l’andamento del sistema domanda/offerta, se in un primo momento possono essere recepite dal territorio interessato come una positiva e virtuosa immissione di liquidità, si rivelano invece nel tempo un fattore che indebolisce progressivamente la rete produttiva e imprenditoriale sana, poiché frutto di logiche di mercato falsate, che innescano una inesorabile inquinamento economico vizioso”.

Inquinamento che va a danno di tutti e non salva nessuno.

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