Verità per Giulio Regeni

I MOTIVI DEI QUATTRO ERGASTOLI

di Paolo Bonacini, giornalista

Un anno e mezzo dopo la sentenza di primo grado in Corte d’Assise a Reggio Emilia (tre assoluzioni e una condanna all’ergastolo nell’ottobre 2020); un anno dopo l’impugnazione di quella sentenza decisa dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Bologna (marzo 2021); cinque mesi dopo la nuova sentenza emessa dalla Corte d’Appello d’Assise di Bologna (quattro ergastoli). Oggi sappiamo perché Nicolino Grande Aracri, Antonio Ciampà, Antonio Le Rose e Angelo Greco sono ritenuti responsabili, come mandanti o come esecutori, di uno od entrambi gli omicidi di Giuseppe Ruggiero e Nicola Vasapollo, commessi in provincia di Reggio Emilia nel 1992.

Le motivazioni della sentenza d’appello sono state depositate il 22 febbraio scorso dal collegio di cui facevano parte i giudici Orazio Pescatore (presidente) e Milena Zavatti (consigliere) assieme a sei giudici popolari. 98 pagine che ricostruiscono nei minimi dettagli moventi e dettagli delle esecuzioni di Nicola Vasapollo e Giuseppe Ruggiero, uccisi a colpi di pistola nelle rispettive abitazioni alla periferia di Reggio Emilia e nel centro del comune di Brescello. Il primo aveva 33 anni, il secondo 35. Entrambi erano agli arresti domiciliari ed appartenevano al gruppo rivale delle famiglie storiche di ‘ndrangheta (Dragone, Ciampà, Arena, Grande Aracri, Sarcone), che ad esse contendeva il controllo del territorio emiliano e dalle quali era irrimediabilmente separato per altre vicende di violenza e di morti ammazzati.

La traccia di questa scia di sangue è riassunta nelle sentenza ed è piuttosto lunga. Nel 1977 Ruggiero Rosario detto Tre Dita uccide Luigi Valerio, padre del collaboratore di giustizia Antonio. Nel 1979 Giuseppe Vasapollo, fratello di Nicola, muore bruciato mentre appicca il fuoco alla discoteca Pink Pussycat di Reggio Emilia. Il suo complice Paolino Lagrotteria scappa in Calabria dal padrino Gaetano Ciampà ma viene ucciso per vendetta il 13 agosto 1992 da Paolo Bellini (reo confesso), il giorno precedente il matrimonio di Stella Ciampà, figlia di Gaetano. È la risposta alla morte di Ruggiero Rosario Tre Dita, già scampato ad un attentato nel 1988 e ucciso nella sua falegnameria di Cutro il 24 giugno 1992. La replica dell’altro fronte arriva neppure un mese dopo. Il 6 settembre 1992 a Cremona viene ucciso Dramore Ruggiero, il fratello di Rosario Tre Dita, e il 15 settembre tocca a Marcello Ponghino Galdini, legato alla famiglia di Giuseppe Ruggiero. Poi i due omicidi di Reggio Emilia, il 21 settembre e il 22 ottobre sempre di quel terribile 1992.

Nel valutare le responsabilità degli imputati che trent’anni dopo sono chiamati a rispondere di quei due omicidi, la Corte d’Assise d’Appello scrive che i giudici del primo grado di Reggio Emilia hanno “sottovalutato specifiche circostanze ritenute decisive” e “del tutto omesse o falsificate” altre circostanze. Alla base di questi severi giudizi c’è una rilettura dettagliata proprio di quella catena di omicidi precedenti ai fatti di Reggio Emilia che costella la rivalità tra i due gruppi. Ad esempio l’assoluzione in primo grado di Nicolino Grande Aracri per l’omicidio Vasapollo è viziata, secondo la Corte d’Appello, dal fatto che “il primo Giudice ha omesso completamente di valutare le dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Vittorio Foschini”, per il quale “l’omicidio di Dramore Ruggiero a Cremona derivava dal fatto che giù a Cutro era stato ucciso un uomo di Mano di Gomma” (soprannome di Nicolino Grande Aracri). Si tratta di Paolino Lagrotteria la cui moglie, secondo Foschini, “era riuscita a strappare la catenina dal collo di uno dei killer” consentendo di risalire all’autore dell’omicidio e ai mandanti. Foschini apprende questa circostanza da esponenti di un’altra cosca di ‘ndrangheta calabrese, i Coco Trovato – De Stefano, per i quali era interesse dei Grande Aracri vendicare la morte di Paolino.

La sentenza d’appello si sofferma poi sulla valutazione della credibilità soggettiva dei due principali collaboratori di giustizia che hanno consentito la riapertura del processo con le loro dichiarazioni: Angelo Salvatore Cortese e Antonio Valerio. L’attendibilità dei loro racconti è riscontrata e le due narrazioni convergono su tantissimi elementi, ad esclusione della composizione del commando che si recò a Brescello sulla finta auto dei Carabinieri per uccidere Giuseppe Ruggiero.

C’era anche il milanese Aldo Carvelli, tra i killer a bordo di quella Fiat, oppure no? Valerio e Cortese sul punto dissentono: Cortese spiega che Lerose sostituiva Carvelli, non arrivato a Reggio Emilia, Valerio sostiene che Carvelli c’era e prese parte all’omicidio assieme agli altri due.

La differenza fondamentale delle due narrazioni è questa. Una contraddizione che la Corte di Reggio Emilia aveva definito “macroscopica”, non consentendo “di ricostruire processualmente, in maniera attendibile, il fatto storico che portò alla morte di Ruggiero”. Nel suo ricorso in appello il sostituto procuratore Beatrice Ronchi aveva attaccato questa tesi sostenendo che, poiché entrambi i collaboratori sono attendibili, i giudici avrebbero dovuto compiere uno sforzo motivazionale per spiegare quale dei due è incorso (in buona fede e non per dolo) in un errore di cattiva memoria. Secondo il PM quella più attendibile era la narrazione di Antonio Valerio, e la “macroscopica divergenza” di cui parla la sentenza non incideva minimamente sul ruolo organizzativo ricoperto da Angelo Greco e Antonio Lerose nel programmare e pianificare la morte di Ruggiero, né su quello esecutivo di Angelo Greco, che entrambi i collaboratori descrivono come uno dei killer.

La Corte d’Appello di Bologna le dà ragione sostenendo che “i collaboratori sono concordi nell’affermare che di quel commando, che entrò nel giardino della vittima, facevano parte sia Angelo Greco che Antonio Lerose” e che “entrambi attribuiscono al Greco il ruolo di killer”. Per Lerose inoltre la sentenza d’appello aggiunge che la Corte di Reggio Emilia aveva “completamente omesso di valutare un elemento probatorio altamente significativo, quale l’utilizzo della sua vettura personale Renault 19 per l’effettuazione dello scappotto: elemento che anche la difesa omise sapientemente di esaminare nella propria arringa in primo grado”. Lo “scappotto” in gergo mafioso è la fuga dal luogo del delitto utilizzando un’auto “pulita”, che non ha partecipato all’azione violenta. La sentenza di oggi dice che Antonio Lerose, “fedelissimo del boss Antonio Dragone” per la cui famiglia “spacciava da anni in questi territori”, mise a disposizione la propria auto per la fuga dall’omicidio e ciò va interpretato come “consapevole adesione al progetto omicidiario, mediante l’utilizzo di uno strumento logistico indispensabile alla buona riuscita dell’azione”.

Aggiunge ancora la Corte di Bologna: “La presenza dell’autovettura di Lerose, con alla guida Angelo Salvatore Cortese, è certa nelle dichiarazioni di entrambi i collaboratori, ma si tratta di un aspetto completamente omesso nella valutazione della Corte reggiana”.

Lo stesso Cortese, a parte la divergenza sulla presenza o meno di Carvelli nel commando che operò a Brescello, ha fornito elementi decisivi, come Valerio, per ricostruire i dettagli della preparazione dei due omicidi. È lui che per primo racconta di un viaggio in treno di Nicolino Sarcone dalla Calabria all’Emilia per portare a Nicolino Mano di Gomma le divise dei Carabinieri che sarebbero servite nella messa in scena di Brescello. La Corte bolognese ricorda che nel 2008, quando iniziò a collaborare con la giustizia, Cortese raccontò di questo viaggio fatto da Sarcone assieme alla sua ragazza dell’epoca, una giovane originaria di Botricello che in seguito si era trasferita a Verona, dove aveva iniziato a prostituirsi. Partendo da quelle dichiarazioni nel 2017, “ben 25 anni dopo gli omicidi, gli inquirenti sono riusciti a identificare Lucia Condito, rimasta fino a quel momento del tutto sconosciuta, e a scoprire che all’inizio degli anni ’90 la giovane, allora minorenne, era stata fidanzata con Nicolino Sarcone”. Lucia Condito ha poi confermato alla polizia giudiziaria di avere fatto quel viaggio con Sarcone, che aveva sistemato la borsa con le divise in uno scompartimento diverso dal loro (evidentemente per cautela) e che andava ogni tanto a controllarle.

La donna, visibilmente sofferente e provata, fu chiamata a deporre durante il processo di primo grado a Reggio Emilia, il 29 settembre 2019. Un’udienza importante, nella quale oltre a lei parlarono anche la moglie di Giuseppe Ruggiero, Maria Stella Camposano, e la ex moglie di Antonio Valerio, Joanna Chojnowska. Scrivemmo allora un articolo titolato “Le donne al tempo degli omicidi” nel quale raccontavamo così la deposizione di Lucia: “Il suo interrogatorio è difficile: è una donna che ha subito traumi e fa abituale uso di medicinali pesanti. La paura è palpabile, il suo sguardo corre spesso alle immagini dei grandi schermi che mostrano un Nicolino Grande Aracri particolarmente agitato. Quando l’avvocato Giunchedi, difensore proprio di Grande Aracri, porta a tutti la notizia che il suo assistito ha deciso di denunciare Lucia Condito per le dichiarazioni rese nel 2017, lei si fa ancora più muta, ancora più assente”.

Lucia in quel momento “era entrata in uno stato di paura”, come certificò la Corte di primo grado e ribadisce oggi la Corte d’appello: “Paura di essere avvicinata da qualcuno”, paura “che qualcuno ce l’abbia con me perché ho ricordato queste cose”, paura “che mi possa fare del male”. E alla luce di questa paura disse anche “di non voler ricordare cosa fosse successo durante quel viaggio in treno”.

Dopo il 1992 lei subì un trauma cranico che può averle reso più difficili i ricordi e provocato vuoti di memoria, ma “non vi è alcuna possibilità” dice la motivazione della sentenza d’appello “che un trauma cranico possa far sorgere ricordi del tutto inventati, come ipotizzato le difese nell’atto di appello”.

Anche Lucia Condito, a ben vedere, è vittima di quella stagione del sangue che nel 1992 provocò tanti morti e sofferenze. Una stagione per la quale ora, in Corte d’Assise d’Appello di Bologna, quattro imputati sono stati condannati all’ergastolo.

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