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SULLE RIVE DEL PO, TRE STORIE DI OGGI E DI GRIMILDE. Prima Parte

Attorno al fiume Po, decisamente in secca in questa stagione ma bellissimo da vedere nel risveglio primaverile delle sue sponde, si registrano nel mese di marzo 2021 tre fatti degni di nota.

Attorno al fiume Po, decisamente in secca in questa stagione ma bellissimo da vedere nel risveglio primaverile delle sue sponde, si registrano nel mese di marzo 2021 tre fatti degni di nota.

Primo: il Tribunale di Brescia, su richiesta del questore di Mantova Paolo Sartori, sottopone un cittadino di Viadana ad un provvedimento di sorveglianza speciale per tre anni, con l’obbligo di dimora nel comune di residenza. Si tratta di Davide Gaspari, 43 anni, pregiudicato. Per lui c’è il divieto di allontanarsi dal comune di Viadana senza il permesso dell’autorità giudiziaria e l’obbligo di trovarsi un lavoro (che per ora apparentemente non ha) entro sei mesi.

Secondo: il responsabile del Servizio Uso e Assetto del Territorio del comune di Brescello, Nando Bertolini, esprime il proprio parere favorevole in ordine alla regolarità tecnica di una proposta di accordo presentata dai signori Sergio Bonassi e Paolo Copelli, entrambi residenti a Brescello, e dal signor Massimo Goi per conto della società Ulisse Progetti srl con sede a Sassuolo (MO). La proposta prevede la costruzione di un nuovo centro commerciale di circa 2100 mq tra Sorbolo Levante e Lentigione di Brescello, con opportuna variante al PRG, su aree private prima destinate ad altri usi, in cambio della cessione di un’area da destinarsi a parco pubblico nei pressi del Centro Sociale della zona. L’accordo era già stato approvato alla unanimità nel mese di gennaio dalla attuale giunta di Brescello che vi ravvisava un “evidente interesse pubblico” tale da giustificare “il ricorso allo strumento negoziale”.

Terzo: all’udienza preliminare del processo di Reggio Emilia sull’alluvione legata alla piena del fiume Enza che nel dicembre 2017 mandò sott’acqua la frazione di Lentigione, provocando mille sfollati e danni per milioni di euro, il Pubblico Ministero Giacomo Forte ha chiesto il rinvio a giudizio per tre imputati accusati di inondazione colposa in concorso. Sono Mirella Vergnani, Massimo Valente e Luca Zilli, tecnici e dirigenti dell’Aipo, l’agenzia interregionale per il fiume Po che si occupa di sicurezza idraulica. È l’ente pubblico costituito dalle regioni Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna e Veneto che sostituisce dal 2003 il vecchio e glorioso “Magistrato per il Po”.

Hanno qualcosa in comune queste tre storie? Sì: le motivazioni della sentenza di primo grado del processo Grimilde, rito abbreviato, depositate il 22 febbraio scorso dal giudice bolognese Sandro Pecorella. E forse anche qualche valutazione sulla non scontata coincidenza tra legalità e giustizia.

Che Davide Gaspari sia oggi libero e non avesse, fino a ieri, particolari restrizioni imposte, è assolutamente lecito da un punto di vista legale. Ma gli otto lavoratori da lui sfruttati, minacciati, e in un caso anche picchiati, in una delle più becere storie di caporalato portate a processo negli ultimi anni, avrebbero forse qualcosa da ridire sul fatto che ciò sia anche giusto.

Il giudice Pecorella, nella sentenza del processo (di mafia), impegna molte pagine per riassume la vicenda relativa al capo 48: l’invio di otto lavoratori qualificati, carpentieri e muratori, in un cantiere edile del Belgio gestito da una società (si fa per dire) di albanesi. Una classica vicenda di caporalato nell’edilizia sfruttato dalla ‘ndrangheta. Dopo infinite trattative con gli albanesi l’accordo strappato per quel cantiere (centinaia di alloggi) da Salvatore Grande Aracri, condannato in primo grado a 20 anni, era sui 14 euro l’ora ad operaio, dei quali 8 in nero sarebbero andati ai lavoratori e 6 nelle tasche degli uomini della cosca.

In realtà è andata peggio, per i lavoratori, reclutati tra persone, dice la sentenza, “tutte in stato di bisogno dovuto ad una cronica difficoltà a trovare lavoro”.

Uno di loro si chiama Francesco Sciano. Dichiara ai PM che Davide Gaspari gli aveva promesso 2500 euro al mese con rate quindicinali di pagamento, regolare busta paga e vitto e alloggio gratuiti. Dopo le prime 100 ore di lavoro, siamo nel 2017 a Bruxelles, Sciano non riceve una lira e si ribella. Torna in Italia, poi torna in Belgio, poi arriva ad un incontro chiarificatore in casa di Gaspari, a Viadana, che chiarisce alla sua maniera come vanno le cose: lo prende a schiaffi, lo minaccia di estrarre la pistola, lo manda al pronto soccorso di Guastalla dove esce con tre giorni di prognosi. Sciano intascherà per quelle 100 ore di lavoro specializzato 675 euro in contanti (6,75 euro l’ora) senza busta paga, senza indennità, senza contributi, pagandosi da solo il vitto nelle settimane dal 25 marzo al 13 aprile 2017.

Gaspari era addetto al controllo in Belgio dei lavoratori per conto di Salvatore Grande Aracri che contava di assumerli nella società Viesse utilizzata anche per la gestione delle parafarmacie messa sotto indagine dalla Procura di Gratteri a Catanzaro. Poi avevano deviato su un’altra società con sede a Firenze, la Balliu Costruzioni srl, che il giudice Pecorella definisce “sostanzialmente inattiva”. Perché in realtà tutte le transazioni erano in nero, e tutti i ricavi dovevano prima di tutto arricchire i capi cosca. Lo spiegano alcune frasi intercettate di cristallina chiarezza. Quando Mario Timpano, altro uomo della cosca, riporta a Salvatore le lamentele dei carpentieri e dei muratori che “non hanno niente da mangiare”, il capo di Brescello risponde: “Mariu, prima di pagarli, raccogliamo prima i nostri soldi, Mariu”. Anche il muratore Samir Bahrini supplica il suo vero datore di lavoro in uno stentato italiano: “Salvatori, per favori, mi serve soldi per la mia famiglia”, ma Grande Aracri pare non sentirci e ribadisce ai suoi: “Noi dobbiamo lavorare con i soldi che lavorano gli operai”.

La testa calda della famiglia non è però lui, Salvatore figlio di Francesco e nipote di Nicolino Grande Aracri. Da capo carismatico, quando gli albanesi non vogliono pagare perché lamentano i lavori di costruzione fatti in maniera indecente, tratta e media uno sconto di quanto originariamente pattuito. La testa calda, il braccio violento, è proprio Davide Gaspari. Dopo che l’albanese Artem, stanco delle inadempienze italiane, minaccia di non pagare e minaccia soprattutto Timpano e Gaspari con un fucile mitragliatore, l’uomo di Viadana si scalda al telefono con Grande Aracri, che teme di perdere i soldi:

Gaspari: “Non perdi niente; non li perdi i soldi. Perché io ci vado col kalashnikov dagli albanesi!”

Grande Aracri: “Sì, dai… vai e gli rompi il muso. Ti porti tutti gli operai e vai là. E gli picchi sul muso!”

Il capitolo finale della storia è che gli albanesi pagano meno di quanto pattuito agli italiani, i quali decidono a loro volta di scaricare il minor ricavo sugli operai per non abbassare il proprio margine. Perché la morale è semplice e si riassume in un’altra battura al telefono di Francesco Grande Aracri con Davide Gaspari: “Ohi, Dà! Ma tu pensi che sto gioco lo facciamo per fare mangiare gli operai?”

Certamente no. Francesco Innocente, per citarne uno, riceve solo 100 euro in nero una notte; Samir Bahrini 250. E nessuno dei due ha insistito oltre. Per paura.

Paura ad esempio di Davide Gaspari, che nel processo Grimilde è stato condannato a 2 anni di carcere e 8mila euro di multa. Tanti o pochi che siano, ora Gaspari dovrà cercarsi entro i prossimi sei mesi, come dicevamo, un lavoro stabile e regolare. Così ha stabilito il Tribunale di Brescia, ma l’interrogativo è d’obbligo: a quale lavoro regolare potrà mai dedicarsi un uomo che di mestiere, stando alle intercettazioni, agli atti e alla sentenza del processo alla ‘ndrangheta, sfrutta quello degli altri, utilizzando l’intimidazione e la violenza per imporre le regole del caporalato estremo?

Questa è la legge. Che a volte appare ingiusta. Vale anche per gli altri due casi ai quali abbiamo accennato all’inizio, e che tratteremo nelle prossime puntate.

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